Metodologie

Perché parlare di uno spettacolo?

Uno spettacolo esiste finché viene eseguito. Poi scompare. Cercare di fissarlo sulla carta è un'impresa impossibile.

Il testo invece continua ad esistere sulla pagina e potrà diventare "altri" spettacoli...

Parliamo piuttosto dei problemi che sono a monte dello spettacolo; parliamo del momento di scontro/incontro con il testo e di progettazione di spettacolo, che precede il più concreto ed intraducibile momento di creazione di spettacolo... Parliamo di quei problemi, mentre la loro soluzione (raggiunta o mancata) rimane comunque affidata soltanto allo spettacolo

Un teatro “politico” come cartello di sfida. Note di regia, in Emilio Jona, Sergio Liberovici, L’ingiustizia assoluta. Cantata drammatica per attori, gruppo folk e bande musicali, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1974, p.

Gli strumenti di lavoro di Castri regista fanno necessariamente riferimento a più linguaggi e si modellano nell'incontro con drammaturgie specifiche. Esiste però un serbatoio di approcci, tecniche, chiavi interpretative che rappresentano le costanti del metodo: la centralità del testo come punto di partenza, l'individuazione di un rapporto personale con quello che il testo propone o nasconde (che può essere di risonanza o rifiuto), la necessità di lavorare secondo un principio dialettico, cioè d'attrito, per estrarre dal testo un senso nuovo con cui organizzare le forme e i linguaggi dello spettacolo, i tempi lunghi di studio ed elaborazione del progetto di regia. 

Castri alterna impulso e razionalizzazione, astrazione e concretezza, con la consapevolezza che anche la più raffinata analisi teorica dovrà tradursi in azioni e parole, dovrà essere ricomposta in un sistema di segni fruibili dal pubblico. L'evoluzione che Castri stesso riconosce nel suo percorso artistico è, col tempo, la necessità di semplificare. Intendendo con semplicità non una riduzione dello spessore del senso, ma piuttosto la capacità di ottenere nuovi significati con più condensati gesti di sintesi, con strumenti diversi e più sottili in merito al lavoro sul testo, alle soluzioni scenografiche e alla scelta dei segni. 

Nell'arco di un percorso artistico così lungo non è semplice isolare e definire gli aspetti metodologici che rappresentano la specificità del lavoro di Castri, né è possibile darne in questa sede una trattazione esaustiva. Raccogliamo di seguito alcuni spunti per cercare di restituire il modo in cui si articola per Castri il gesto complesso della regia nelle sue fasi di costruzione, negli aspetti più concreti e processuali che conducono allo spettacolo.

SCRITTURE

Nella prima parte del suo percorso, in una fase in cui professione e formazione si sovrappongono, Castri accumula una serie di esperienze che lo coinvolgono nella scrittura o rielaborazione dei testi con un approccio che rimanda alla figura del dramaturg di area tedesca, più che all'autore drammatico vero e proprio, e che sono alla base degli interventi radicali, vere e proprie riscritture, in alcuni dei suoi primi confronti anche con le forme più classiche della drammaturgia. Così riassume le esperienze che fanno parte del teatro di radicamento (in riferimento in particolare ai lavori realizzati con Emilio Jona e Sergio Liberovici nei primi anni Settanta), forme che cercano la politicità del teatro nel suo aspetto processuale oltre i contenuti: 

«Esperienze che riguardavano la metodologia processuale attraverso la quale arrivare alla comunicazione teatrale. Sono esperienze che ho fatto negli anni caldi, '69, '70 e '71: alla ricerca di una metodologia di radicamento, di rapporto preciso con una comunità e di scrittura del testo, interna al rapporto con la comunità stessa. La ricostruzione dello spettacolo testimoniava il momento di rapporto con la comunità, ed infine di verifica dello spettacolo: un procedimento di una circolarità che cercava una dialettica tra fruitore e produttore della comunicazione teatrale. Era una ricerca che si muoveva come sperimentazione sul momento della scrittura: una scrittura non più abbandonata a sé, separata dallo spettacolo, ma elaborata ex novo, ed eventualmente in collaborazione con destinatario». 

Questa fase traduce in modo più diretto l'idea di un teatro politico nei metodi e nella scrittura prima che nei contenuti che aveva l'obiettivo di modificare il coinvolgimento degli spettatori nel processo del fare teatro, di fare del teatro lo strumento per una condivisione attiva di storie collettive, di riflessioni sul presente e progettazione del futuro.  Questa tendenza rimane in sottotraccia anche dopo l'arrivo a Brescia perché in continuità con la linea del teatro documento inaugurata già dalla Mezzadri e l'idea di un allargamento della partecipazione e della diffusione del teatro nel territorio. 


Lo spettacolo del regista. Massimo Castri, in Il teatro italiano oggi. Ideologie teatrali e bisogno di teatro, a cura di Erminia Artese; Roma,  Lerici, stampa 1980, p. 61

IL RAPPORTO COL TESTO

«Ho bisogno di un testo, e forse ne avrei bisogno comunque, anche se testi non ce ne fossero più ... perché ho bisogno di un polo dialettico che diviene necessario per innescare il processo creativo. Io non credo che ci si possa muovere in una dimensione di libertà assoluta. Ci si può muovere in una dimensione di necessità e libertà. anche se il testo non ci fosse, credo che me lo inventerei fantasmaticamente: un polo di riferimento contro il quale sbattere, da cui avere risposte per dare altre risposte».


Lo spettacolo del regista. Massimo Castri, in Il teatro italiano oggi. Ideologie teatrali e bisogno di teatro, a cura di Erminia Artese; Roma,  Lerici, stampa 1980, pp. 64-65

«La responsabilità nei confronti dei testi si svolge su un crinale molto ambiguo, che sta tra fedeltà e tradimento; se non c'è fedeltà, non va bene qualcosa, se non c'è tradimento, non va bene qualcos'altro. Insomma se non c'è un sano rapporto erotico, fatto di fedeltà e di tradimento, il rapporto con il testo non funziona. L'alchimia di questi due doppi movimenti complementari di fedeltà e tradimento varia ovviamente in rapporto al testo, del testo, alla qualità del testo, e così via».

Massimo Castri, Responsabilità del regista, in "Dioniso", 1993, vol. LXIII, p. 155

SOSPETTO E SOTTOTESTO

Per il chiarimento delle nozioni di testo, sottotesto, sovratesto e contesto, si propone la trascrizione dell'intervento di Massimo Castri al convegno La drammaturgia europea negli anni '80, Stresa, 17-19 maggio 1981. 

«Dunque io innanzitutto chiedo scusa, perché sono come una specie di scolaro che non ha fatto la lezione, oltretutto ho anche dormito poco e quindi chiedo scusa, ma spero di riuscire a dire qualcosa di chiaro. 

Insomma è da ieri sera, cioè da quando sono arrivato, che cerco di capire l’oggetto di cui si sta parlando in questo luogo. Mi si dice che si sta parlando dei rapporti tra testo e regia, tra autore e regista, insomma, o qualcosa di simile. A me sembra appunto che l’argomento posto in questo modo forse è posto in maniera un tantino meccanica, cioè non corrisponde più allo stato attuale della scrittura scenica o della scrittura teatrale, cioè di quel

fatto complesso che è la scrittura teatrale, che va ben oltre ormai queste distinzioni che rimandano ad epoche abbastanza lontane da noi. 

Comunque, prendendo per buono il giuoco, il giuoco dei ruoli appunto che mi sembra sia stato impostato in questa sede, dando per scontato che io sono un regista, mi assumo il ruolo del regista e cercherò di rispondere molto brevemente a questa domanda che mi sembra che ci sia nell’aria, cioè che cosa fanno questi mascalzoni di registi nei confronti dei testi che gli vengono affidati, che vengono affidati alle loro mani. 

Dunque, innanzitutto, forse prima di ogni altra cosa andrà detto che siccome ho sentito parlare ancora, appunto di re del teatro appunto, che è l’autore, oppure che invece è il regista oppure che è il pubblico e così via, mi sembra che siano tutte quante semplificazioni o corporative o demagogiche o così via. Insomma, in teatro in questo momento, specialmente in Italia, c’è soltanto uno che vince ed è sostanzialmente il mercato e sono poi i borderò, che devono essere presentati al ministero, che sono quelli che costituiscono la pezza d’appoggio per avere rientri ministeriali e tutto questo porta con sé il resto, cioè i tempi di lavoro sul testo. Come il regista lavora sul testo e così via, insomma, e naturalmente anche le metodologie di lavoro sul testo, sono nettamente influenzate dalle condizioni concrete di lavoro, dalle condizioni concrete in cui si fa teatro in Italia. Magari questo è un argomento su cui possiamo ritornare, ma credo che sia l’argomento base; cioè le metodologie si fanno sul terreno concreto degli strumenti di lavoro e delle modalità della produzione teatrale. Questo lo mettiamo da parte, forse poi ci torniamo.

Ora, molto brevemente, diciamo che cosa fa il regista con questo testo che gli arriva tra le mani. Vorrei dare soltanto due/tre provocazioni, quasi degli aforismi, per poi tornarne dopo a parlare insieme. Cioè il testo, ecco il testo, che cosa si fa del testo? Il testo lo si guarda con sospetto, direi subito. Ecco, non può essere altro che guardato con sospetto, perché? Perché ci si domanda subito, dato che siamo figli di questa epoca, che cosa significa questo testo?

Nettamente è un sistema di segni più o meno complesso, qualcosa deve significare. E non è una domanda peregrina, questa dico perché viviamo in una realtà in cui siamo abituati a considerare segno praticamente tutto quello che ci circonda e non soltanto questo, ma siamo ormai abituati per forma mentis strutturata saldamente in noi a pensare che ogni altra, ogni cosa, quindi ogni segno in qualche modo significa qualche cosa che è altro da sé o rimanda a qualche cosa che è altro da sé. Non fosse altro perché abbiamo alle spalle due grandi letture del reale, diciamo per semplificare molto, insomma, due letture del reale che sono le dominanti, a partire dalla fine dell’Ottocento ormai, cioè la lettura diciamo così materialistica e dall’altra parte invece la lettura psicoanalitica del reale e che ci insegnano che tutto quello che vediamo e tocchiamo, insomma, non significa quello che è, cioè non è quello che sembra, ma rimanda a qualcosa di altro, da ciò che è cioè significa ancora qualcosa altro. Quindi, queste sono abitudini che abbiamo. E ci è stato detto e ripetuto che, per esempio, la parola significa soltanto, esprime soltanto celando e soltanto in quanto cela esprime. Abbiamo alle spalle la grande lezione dello straniamento, cioè ogni cosa deve essere straniata, cioè spiazzata in un contesto altro da sé, perché possa esprimere qualche cosa veramente e così via. Cioè, viviamo in un mondo di segni in un mondo in cui tutto significa qualche cosa di altro da sé e lo rimanda ad altro da sé.

Mi sembra che il lavoro sul testo da parte del regista, cioè questa figura storica che è nata in momenti particolari, in circostanze particolari, insomma, e sono abbastanza d’accordo con quello che dice Alonge nelle pagine di introduzione di questo dibattito, ecco il regista affronta il testo con sospetto, chiedendosi che cosa significa questo testo, cosa significa questo sistema di segni. A questo fatto direi, aggiungiamo altre due considerazioni, cioè che viviamo in un’epoca in cui lo sappiamo benissimo, non esistono più codici di riferimento, non esistendo più codici di riferimento chiari il lavoro del regista sul testo non ha più queste scatole, queste gabbie, all’interno delle quali appunto attuare la messa in scena. Ma esistono così delle poetiche estremamente labili, esistono così dei movimenti di poetica in continuo divenire e anche questo crea un rapporto con il testo che è in divenire, che è un rapporto dinamico, un rapporto di illuminazione reciproca permanente.

Viviamo in un’epoca in cui domina la dimensione meta, cioè metalinguaggio, metateatro cioè ogni cosa deve essere guardata con uno sguardo che sia sulla cosa sia, appunto, sulla cosa alla seconda in qualche modo e così via. Questo mi sembra sia un po’ l’ABC dentro il quale deve  essere inquadrato il rapporto, dico che questo cattivo, questo padrone, questo demiurgo del palcoscenico che è il regista appunto, il rapporto che stabilisce con il testo è che è una prima, diciamo indicazione di lavoro, una prima indicazione e una prima provocazione. Se volessi dirlo in altri termini, ecco che cosa è il testo per il regista. Ora naturalmente qui sorvolo ancora sulla problematica che è ormai da tanti anni ci ributtiamo come una palla, cioè perché non ci sono testi contemporanei? Perché usiamo ancora i testi cosiddetti classici? e così via. Vabbè che ci sia un vuoto di scrittura contemporanea in Italia, beh, questo mi sembra abbastanza acquisito. E forse non è questo il momento di chiedersi il perché, poi forse non sta a me chiedersi il perché, ma di fatto c’è un vuoto di scrittura contemporanea. La scrittura contemporanea diventa molto spesso la scrittura scenica, la scrittura alla seconda, se vogliamo chiamarla così, cioè la struttura che opera questo autore in parte appunto che è il regista. Ma, messo da parte questo problema abbastanza grosso, sempre dibattuto e mai risolto (perché forse si risolverà soltanto quando ci saranno dei testi contemporanei veramente), diciamo allora cos’è il testo. Da un altro punto di vista potrei dire che il testo per il regista potrebbe essere la necessità attraverso la quale si realizza la sua libertà. Diciamo così, con una formula gramsciana spostata in un terreno abbastanza improprio, però è vero anche questo, cioè, per quanto mi riguarda, la sento come una formula che risponde abbastanza a quello che faccio nei confronti di un testo. La libertà assoluta non mi andrebbe, mi farebbe svolazzare dentro il palcoscenico un po’ a caso, mentre un testo mi dà quella forma di necessità all’interno della quale realizzo la mia libertà. È quindi il testo in qualche modo una sorta di terreno sul quale poi nasce la scrittura reale del teatro che è la struttura complessiva, cioè la scrittura scenica, che è formata da un sistema di segni estremamente complesso è formata appunto da tanti livelli di segni, fino a elaborare una così con un detto, con la famosa formuletta di Barthes che è sempre comoda in questi casi, cioè fino a elaborare una sorta di polifonia di segni all’interno della quale appunto, i livelli di segno sono molti e stanno tra di loro in un rapporto di straniamento reciproco, di dialettica reciproca, eccetera eccetera. Questo è cosa è il testo. Ecco, un altro modo per indicare cosa è il testo per il regista mi sembra che sia questa formuletta che ho detto. 

Scendendo ancora più in concreto, arrivando al mio lavoro di regista in senso stretto, che cosa faccio io con i testi? Quali sono le metodologie che uso di approccio ai testi, che nella maggior parte dei casi sono testi come ho detto prima, i cosiddetti classici, testi appunto che si sono depositati nel bagaglio che ci portiamo appresso, dico, e nel quale peschiamo. Il bagaglio nel quale peschiamo, naturalmente sempre con dei limiti molto precisi, perché il mercato anche in questo caso non perdona, perché se si vuole mandare in giro uno spettacolo è molto difficile che questo spettacolo possa avere un titolo diverso, un autore diverso da un Pirandello, da un Cechov, da un Ibsen, da uno Shakespeare, da un Goldoni; qualche anno fa da un Brecht, ma già Brecht si vende abbastanza in maniera difficoltosa ormai di questi tempi. È difficile comunque uscire da questo ambito e quindi anche la scelta dei testi è condizionata molto dal mercato, così come le famose novità sono estremamente difficoltose sul piano del mercato. Ma tornando allo specifico, ecco come lavoro io nei confronti di questi testi dopo aver detto le cose che ho detto prima. Cioè il testo mi si propone appunto come un sistema di segni da decodificare in qualche modo, cioè come una superficie testuale che devo decodificare fino magari poi a riprodurla nella sua interezza di superficie, nella sua integrità di superficie, e lavoro con svariate metodologie. D’altra parte non è la prima volta che lo dico, mi sono trovato anche in altre occasioni a spiegare i misteri del retrobottega, insomma, di chi fa regia di questi tempi. E quindi ripeterò delle cose che sono già abbastanza conosciute per lo meno da molti di noi.

Direi che il testo dà origine molto spesso alla scoperta di un sottotesto, e questa è una delle metodologie più normali che io metto in atto ed è evidentemente chiara l’analogia, in questo caso tra superficie testuale e certe indicazioni metodologiche e che ci vengono dalla psicanalisi, per esempio il testo è una superficie che svela, ma anche rimuove e soltanto in quanto rimuove svela, e così via. Di conseguenza ecco che si va alla ricerca di un sottotesto, ma adesso i termini non spaventino perché sono così delle etichette di comodo che uso. Ecco, è una ricerca di un sottotesto che riscalda il testo e stabilendo un rapporto dialettico con il testo, dà origine a una, dà origine, diciamo appunto dico, ha una materia sulla quale appunto scatta poi il secondo momento che è il momento della scrittura scenica. Ecco, altre volte, invece, su un testo si tende a lavorare soprattutto attraverso il sovratesto. Il sovratesto cioè cosa è? Sono le concrezioni che si sono stabilizzate su un testo, dico, attraverso l’uso che del testo è stato fatto nel corso degli anni, dei secoli, spesso attraverso i quali è passato. Faccio un esempio per chiarire molto rapidamente. Nei confronti del dramma borghese, per esempio, forma molto chiusa e forma quanto mai simile a una superficie di scrittura che svela celando e operando continue rimozioni ho agito (e mi riferisco a Pirandello, e mi riferisco a Ibsen) soprattutto attraverso il reperimento in svariati modi, con svariate metodologie, naturalmente con svariati strumenti di analisi del testo, ho agito elaborando, ritrovando e mettendo in attrito con il testo, ritrovando un sottotesto. Al contrario invece nei confronti, per esempio, di un testo come un testo di Seneca che ho fatto qualche anno fa, cioè l’Edipo, ho lavorato in maniera, dico assolutamente opposta. È chiaro che non c’è un sottotesto dell’Edipo perché l’Edipo è il sottotesto principe direbbe un freudiano e quindi non ci può essere un dietro l’Edipo, non c’è niente altro perché è il significante principale. Di conseguenza ho lavorato attraverso il sovratesto, cioè ho messo in attrito con il testo il sovratesto e cosa era in questo caso il sovratesto, cioè l’uso che del mito di Edipo è stato fatto attraverso i secoli, cioè fino ad arrivare appunto a noi, in cui il mito di Edipo è di nuovo un mito, ma è un mito sostanzialmente culturale, che viene utilizzato in funzione didattica, anche se oscuramente didattica e così via. Ecco quindi in questo caso ho lavorato attraverso un sovratesto in attrito con il testo. 

In altri casi si può lavorare in maniera contestuale, invece nei confronti di certi autori, quando più autori specialmente, che elaborano un sistema di metafore ossessive. Mi riferisco specialmente a Pirandello che scrive sempre la stessa opera in qualche modo, elaborando continuamente una stessa metafora che è centrale, appunto della sua problematica o del suo io in qualche modo oppure Ibsen, che elabora un sistema di metafore ossessive estremamente compatto, estremamente chiuso. Ecco che allora sul testo si può lavorare attraverso il contesto, cioè contestualizzandolo dentro la filigrana totale del corpus dell’autore, utilizzando gli altri testi che non sono in questione nel momento specifico. Non so, mettiamo Il costruttore Solness deve essere messo in scena, sono gli altri testi di Ibsen che possono servire come delle filigrane di interpretazione, come delle cartine trasparenti che si mettono sopra il testo per recuperare una collocazione contestuale del testo stesso, dal quale testo viene ulteriormente illuminato. Ecco, io credo di avere detto abbastanza storie di retrobottega e avere indicato alcuni problemi che nel rapporto regia-testo oggi secondo me si pongono.

E mi fermo qua perché non vorrei prendere troppo tempo, grazie».

I TACCUINI DI REGIA: IL LAVORO DI DRAMMATURGIA

«lI mio modo di affrontare il discorso della regia rientra sempre in quella categoria della drammaturgia - categoria di analisi testuale, di scavo del testo, di appropriazione totale del testo - che prepara il lavoro della regia, il quale viene sempre in un secondo momento, oppure si fa contemporaneamente, ma attraverso un processo dialettico con questo lavoro di drammaturgia?»  

Massimo Castri, Lo spettacolo del regista. Massimo Castri, in Il teatro italiano oggi. Ideologie teatrali e bisogno di teatro, a cura di Erminia Artese; Roma,  Lerici, stampa 1980, p. 62

UN METODO DI LAVORO, UNA STRADA PER CUI SI VA

«Da sempre Castri affida ai taccuini il lavoro preparatorio di progettazione dello spettacolo. Studiati cronologicamente offrono quindi la possibilità di osservare lo sviluppo delle metodologie di analisi e di indagine che man mano si sommano, crescono e si arricchiscono. Proviamo di seguito a sintetizzare alcuni elementi trasversali e costanti di riferimento nonostante ogni spettacolo, o filone di spettacoli, abbia poi una sua genesi particolare.

La stesura dei taccuini di regia è per Castri una consuetudine, ma anche un metodo, cioè, etimologicamente, una strada per cui si va: seguire la lettura dei materiali legati ad un testo corrisponde a riattraversare il percorso che porta all’ideazione e poi alla costruzione dello spettacolo.

Nella consuetudine del taccuino, il confronto con il testo si traspone nel gesto della scrittura in una sorta di dialogo privato del regista con il materiale oggetto del suo studio. Il percorso, che talvolta prende le forme di un’ indagine poliziesca e il ritmo fitto di domande incalzanti di un interrogatorio, resta documentata da un’ ampia mole di appunti, pagine e pagine di fitte annotazioni che testimoniano un percorso tortuoso di verifiche continue, ripensamenti, ritorni, e, a volte, la discontinuità e le difficoltà di un processo creativo. La riflessione sul testo è anche dialogo con se stesso, un vero e proprio momento di razionalizzazione di un processo analitico. Al termine di questo processo, il gesto registico vorrebbe porsi non come sostituto del testo, ma in un rapporto di sintesi rispetto ad esso, come la realizzazione concreta, tramite i codici spettacolari, di un crocevia di istanze differenti, contenutistiche e formali oltre che narrative, di istanze profonde che ne esprimano l’essenza in rapporto a personali esigenze di poetica.

In un arco temporale sempre piuttosto lungo, i taccuini registrano perciò l’evoluzione di un percorso di elaborazione mentale e di immaginario che si può scomporre in diverse fasi successive dal primo approccio al testo sino alla stesura di una o più possibili scalette di regia, una sceneggiatura virtuale dello spettacolo, e comprendono gli incontri preparatori con i collaboratori per definire la scenografia, i percorsi sonori e di luce, a volte si estendono al periodo dell’allestimento diventando anche una sorta di diario delle prove riportando schemi d’azione e riflessioni dettagliate su gesti e prossemica, sulle strategie da adottare nel rapporto con gli attori.

Escludendo la fase delle prime letture, i taccuini di regia normalmente coprono in media un periodo di sei-otto mesi. La scrittura dei taccuini accompagna tutta la fase di progettazione e di preparazione degli spettacoli e rappresenta la prima trasposizione concreta del rapporto che il regista instaura con il testo da rappresentare. Analisi, confronti critici e lavoro immaginativo fanno parte di questo confronto diretto con il "nemico", il testo, che per Castri costituisce sempre un oggetto complesso, un tessuto composto da più strati e livelli significanti da attraversare. È un percorso che passa attraverso diverse fasi, tutte strategicamente fondamentali. È un tempo non continuativo, in base agli impegni produttivi a volte le fasi di progettazione si sovrappongono, e a volte anche per questo, i processi entrano in dialogo e si contaminano. Il momento progettuale è interrotto dagli impegni di lavoro, dalle fase pratiche di allestimento, dalla realizzazione degli spettacoli.

La prima fase, di solito la più lunga, riguarda il periodo di studio svolto dal regista a tavolino, in solitudine, in dialogo, spesso in scontro con i testi e gli autori.

In questa fase si possono individuare diversi momenti.

Primo è il rapporto con il testo, la fase delle letture. Gli appunti impressivi, annotati come primo deposito d’impatto con un testo o con un autore, rivisto a distanza di anni e non sempre in funzione di una produzione già stabilita testimoniano i primi approcci, immediati e “di pancia” di Castri con un testo o con un autore. Appunti di immagini, ipotesi di cast, giudizi a volte estremamente sintetici, che liquidano in una riga un autore ma che a volte cambiano nel tempo quando Castri ritorna a distanza di anni a rivedere il testo. A questo primo bagaglio di letture impressive Castri attinge quando deve indirizzare la scelta per un nuovo titolo e quando inizia il lavoro di regia per recuperare e verificare un rapporto con l’oggetto testo più “caldo”, immediato e ingenuo. Lo steso tipo di sensazioni e impressioni che chiede agli attori di condividere all’inizio delle prove a tavolino. Al di là delle razionalizzazioni, degli smontaggi e degli approfondimenti che seguiranno nella fase di analisi, spesso è in queste prime impressioni che risiede il nucleo del rapporto col testo, più spesso conflittuale che pacificato, è in questo centro immediato che risiede il motore della spinta creativa dell’esigenza poetica. I tortuosi percorsi produttivi, i vincoli alla scelta, portano Castri a realizzare progetti a distanza anche di trent’anni dal momento della prima attrazione o del primo interesse generato dai testi. Nei faldoni degli spettacoli confluiscono spesso tutte le letture relative al testo rappresentato che provengono da taccuini di lettura diversi e precedenti; si tratta di gruppi di fogli sparsi che corrispondono appunto ai primi approcci al testo 

Al recupero di questo materiale “ingenuo”, per fondare o rifondare il rapporto col testo seguono più letture che registrano le impressioni attuali del testo a più livelli. Possono essere letture generali o con un taglio specifico legato all’analisi del racconto o della struttura, a volte Castri realizza delle letture “sezionanti” che si concentrano su singoli temi o filoni del testo oppure sul percorso di singoli personaggi. La concentrazione su alcune zone e l’esclusione di altre, è strumento di organizzazione e verifica di possibili operazioni drammaturgiche.

L’analisi procede tramite una fase conoscitiva: è una fase più strettamente di studio, in cui l’attenzione è concentrata sul testo considerato come oggetto di un percorso di ricerca e scavo, una vera e propria ermeneutica che agisce a diversi livelli. Il rigore esercitato in questo processo analitico deriva dalla necessità di rendere il testo conosciuto e conoscibile in tutte le sue parti.

Castri allarga l’indagine in relazione all’opera e all’autore nel suo complesso annotando spunti legati alla biografia e ad altri testi, a volte all’opera intera, con quelle che definisce “letture di contesto”. Queste letture stabiliscono rimandi nella poetica di un autore, analogie e riscontri di tematiche, somiglianze tra personaggi, è la fase che Castri definisce delle letture di “griglia” o contestuali.

C’è un approfondimento ed uno scavo condotto con la curiosità del ricercatore o dell’investigatore a raccogliere in una prospettiva storica e allargata quante più informazioni possibili per mettere in collegamento l’opera con il contesto storico culturale in cui è stata scritta e per collocarla in riferimento alla biografia dell’autore. 

Per Castri, stabilire con chiarezza quale sia il nucleo drammaturgico richiede un lavoro in contropelo rispetto al testo, condotto con un atteggiamento di negazione e sfiducia dell’apparenza della lettera.

A partire dall’incontro con gli autori della crisi del dramma borghese (il riferimento centrale è per Castri quello di Szondi), in particolare con Pirandello e Ibsen, Castri attiva un processo di analisi e di scavo attivata da un atteggiamento di “sospetto”, dalla sensazione che le parole dell’autore e del testo nascondano un contenuto più denso che va rivelato. In questa fase rientrano anche una serie di letture critiche che rinviano ad una bibliografia specializzata sugli autori e le opere come punto di riferimento, di conoscenza e di acquisizioni di nuove chiavi di lettura nello sviluppo del lavoro. A queste si aggiungono altre letture di metodo ermeneutico (in particolare Castri approfondisce gli strumenti della psicologia, dello strutturalismo, dell’antropologia).

L’orizzonte entro il quale lavora il regista è quindi ricchissimo di stimoli ed è il risultato di una mescolanza di prospettive molteplici definite dalla sua formazione di uomo di teatro e di intellettuale.

Il risultato è una lettura analitica e scompositiva da cui si può partire per definire il senso dello spettacolo e per individuare i possibili spazi di attualizzazione del significato più profondo.

Si susseguono quindi letture che assumono il testo da punti di vista differenti e che permettono di individuare i diversi strati in esso depositati, di separarli, scandagliarli e poi riaccostarli in una sintesi che renda però anche conto di quali meccanismi regolino la loro reciproca integrazione. 

Si tratta di un vero lavoro di ricerca, di esercizio di libertà critica che dura fino a quando non lo consentano i vincoli dei tempi produttivi. 

Ne consegue il passaggio alla fase più direttamente creativa e progettuale che raccoglie i dati di base emersi dall’analisi e ne sviluppa l’elaborazione in un’ottica di efficacia realizzativa e comunicativa.

Castri ripercorre i suoi appunti, sottoponendoli ad una revisione e “setacciando” gli elementi che risultano più significativi spesso realizzando quelli che nel suo lessico personale chiama i “catasti”: elenchi delle immagini e delle associazioni generate dal testo (elementi frammentari ma persistenti a livello di immaginario che costituiscono la base per l’impostazione dell’operazione registica), elenchi delle suggestioni relative alle soluzioni scenografiche, elenchi delle espressioni che caratterizzano il testo e i singoli personaggi dal punto di vista dell’espressione linguistica. 

Nel momento di scegliere come orientare la linea registica, come depositare il risultato dell’attrito tra testo e interpretazione, spesso Castri mette a confronto diverse possibilità e versioni prima di scegliere per la linea drammaturgica e di senso definitiva. Alcuni testi, sottoposti all’analisi producono un’ipertrofia di linee e percorsi possibili, sono ipersignificanti e non sempre riassumibili in un unico gesto registico complessivo. È il caso per esempio del Così è (se vi pare), di cui Castri realizza nel tempo tre versioni che pongono l’accento su tre possibili chiavi di lettura distinte.

Quando il percorso è più lineare, individuato un nucleo di senso valido, verificato nella sua coerenza interna al testo, è necessario individuare i gesti da attuare a livello di regia perché questo nucleo possa essere portato alla luce. 

Mettendo in dialettica il risultato d’analisi con le impressioni ricavate dal testo si cerca di immaginare e individuare, attraverso successive approssimazioni, le soluzioni e i percorsi espressivi più esatti, più efficaci e precisi per la comunicazione del senso. 

Questa fase è dunque condizionata da un’ottica più progettuale: si svolge sempre in funzione di un’attenzione alle possibilità di realizzazione pratica delle diverse ipotesi, proprio perché le decisioni prese avranno una diretta ricaduta di tipo operativo. 

È in questa fase che iniziano i confronti con i collaboratori artistici (scenografo, sound designer, aiuto regista): i ragionamenti sulle soluzioni spaziali, sulle scelte musicali, sulla definizione del cast.  Gli incontri periodici agiscono come ulteriore banco di prova e verifica della coerenza logica delle acquisizioni, portando nella dialettica una nuova voce, un nuovo punto di vista. Ogni incontro è anche nel concreto l’occasione per rielaborare il materiale nuovo, in vista di un'esposizione ad altri: in questo modo, anche le intuizioni più recenti o frutto di libere associazioni subiscono un primo processo di razionalizzazione. Prima della definizione del piano visivo legato alla scena l’ipotesi (o le ipotesi) registiche vengono sottoposte a una ulteriore verifica ripercorrendo l’arco di sviluppo dell’idea attraverso la lettura dei taccuini precedenti. 

Senza mai perdere di vista i precedenti livelli, che restano come sostrato di riferimento, e man mano che si sviluppa la riflessione sullo spazio, la fase che segue è quella della stesura di una scaletta di regia in cui immagini, azioni e "accadimenti scenici" si susseguono per definire le linee di montaggio delle scene. Lo spettacolo, inizia a prendere forma, si definisce in un lavoro di immaginario concreto che diventa via via più dettagliato.

I taccuini che documentano i periodi di prove, documentano le sintesi che Castri prepara per presentare il lavoro alla compagnia, notazioni sulla ritmica delle prove, in alcuni casi notazioni grafiche legate al montaggio e alla prossemica delle singole scene, notazioni relative alle scalette delle musiche e alle scelte illuminotecniche. Oltre all’espetto teorico-progettuale i taccuini accolgono in questa fase anche osservazioni più “diaristiche” sull’andamento del lavoro, difficoltà o problemi incontrati nella pratica, possibili strategie di soluzione.

Per tornare al metodo, da un lato si ha la scrittura come momento di fissazione permanente di un pensiero (sia esso nato da un’analisi, da una riflessione autonoma o dalla lettura di un testo critico, talvolta riportato tra virgolette, in forma di citazione); dall’altro, si innesta su questo un secondo livello che assume il primo come materiale oggetto di ulteriore analisi. 

La scrittura del taccuino registra questa elaborazione stratificata che organizza e valuta la coerenza stessa del ragionamento integrando nel discorso critico anche la sua organizzazione. In sintesi, dalla lettura possiamo ricavare contemporaneamente informazioni di contenuto e di metodo di lavoro. Alle annotazioni sui contenuti, infatti, si affiancano le riflessioni e i commenti relativi allo sviluppo dell’analisi, riflessioni di metodo e indicazioni di programmi operativi rispetto al lavoro ancora da svolgere. 

Questa alternanza ha carattere sistematico: molto spesso il lavoro parte dalla progettazione di uno schema, di una strada da percorrere costituita da una serie di tappe consequenziali guidate da un criterio. Alla stesura di questa scaletta segue il suo svolgimento, più o meno lineare e dalle note conclusive  e di sintesi rispetto ad ogni fase si dedurranno i principi necessari per la strutturazione della fase di lavoro successiva. 

Si può osservare così una tendenza di metodo (ovviamente non priva di eccezioni, di “compiti” costantemente rimandati, e da notazioni meno organiche e più estemporanee): anche se la scrittura sembra seguire un ritmo associativo, poco strutturato, il procedere del discorso viene ricondotto al disegno generale. Le intuizioni più estemporanee formano delle digressioni, anche molto ampie, rispetto al progetto di partenza che non viene tuttavia abbandonato; piuttosto vengono rielaborate, integrate come elementi nuovi che si sommano e portano avanti il ragionamento.

La fedeltà a questo principio logico, dialettico in senso hegeliano, è garanzia dell’efficacia del ragionamento, per lo meno a livello della sua coerenza interna ma comporta spesso ripetizioni e ritorni sui medesimi temi che vengono scandagliati fin quasi ad essere consumati, esauriti. 

Questa “strada per cui si va” ha, insomma, un carattere ciclico e a spirale nella struttura e, talvolta, anche nei contenuti che vengono ripercorsi sotto diversi punti di vista ed è mossa da un’esigenza interna di coerenza collegata alla necessità di chiarirsi e di rendere chiaro all’esterno il fil rouge del senso, di conservare una spinta in avanti per la comunicazione»

Thea Dellavalle estratto dalla tesi di dottorato di ricerca in Discipline del cinema e del teatro “Avanzare a ritroso. Spettri di Ibsen nella messinscena di Massimo Castri: dai taccuini alla scena”, rel. Prof. Roberto Alonge, Università degli Studi di Torino, Dipartimento di discipline artistiche musicali e dello spettacolo (XXII ciclo a.a. 2006-2007/ 2008-2009)

Taccuino Letture di testi di Goldoni

La Locandiera, lettura "di contesto" per Gl'Innamorati

Griglia di testi per il personaggio di Eugenia  de Gl'Innamorati

Gl'Innamorati: lettura 'leggera' per 'vedere' i personaggi

Massimo Castri durante le prove di Ifigenia, Torino, Teatro Astra, 2001 ph_Marcello Norberth

 «Castri non ha mai dimenticato la lezione dell’avanguardia: basti pensare a come utilizza lo spazio». 


Ettore Capriolo durante la tavola rotonda in Massimo  Castri e il suo teatro: settimana del teatro 30 marzo - 5 aprile 1992. Quaderni di Gargnano n. 2, a cura di Isabella Innamorati,  Bulzoni, Roma 1993, p. 126.

Claudia Calvaresi, modellino scenografico per Ifigenia per l'allestimento al Teatro Astra di Torino

LA MUSICA

Come mai la lirica le interessa così poco?

Smentisco categoricamente questa diceria, dato che pochi amano la musica come il sottoscritto che ha cominciato la sua carriera suonando il trombone à coulisse nella banda del suo paese! 

Massimo Castri in Massimo Castri in Enrico Groppali, "I registi demiurghi hanno creato il vuoto", in "il Giornale, 1 dicembre 2004

 LA RECITAZIONE

«Un approccio alla recitazione poco frequentato in Italia, motivo per cui gli attori, con Castri, hanno spesso avuto grandi momenti di crisi. Aveva una competenza drammaturgica straordinaria e proponeva agli attori un metodo di fondazione del personaggio che pochi altri registi in Italia, a tutt’oggi, sono in grado di guidare. In questo contesto all’attore si chiede di sviluppare una logica che non è la sua, di deporre la propria maschera abituale, le sue ricorrenze, per spostarsi da sé e andare in direzione del personaggio. Una modalità che prevede di farsi penetrare profondamente dal ruolo in analogia con il lavoro di Barba e di Grotowsky. Una forma di identificazione/alienazione notevole che rappresenta la coincidenza tra Stanislavskij e Brecht: così tanto fuori da te da essere dentro di te e viceversa. La differenza tra fare per finta e fare per davvero. Questo era l’unico percorso contemplato da Castri per arrivare al personaggio e spesso poneva gli artisti di fronte ai propri limiti e manierismi producendo un senso d’inadeguatezza che li mandava sistematicamente in crisi».

Cristina Pezzoli, intervista riportata in Alla Munchenbach, Tino Schirinzi. Un mestiere costruito sull'acqua. Biografia, interpretazioni e testimonianze, Edita Casa Editrice e Libraria, Taranto, 2017, p. 163. 

«Durante il normale processo, la libertà dell'attore consiste in ciò che lui sa conquistarsi all'interno di un sistema di lettura dato: non può scegliere il testo perché è già stato scelto, non può scegliere il sistema spaziale di riferimento, cioè la traduzione spaziale del testo, perché la scenografia parte due mesi prima, a volte anche sei mesi prima. Quindi dentro questo sistema di parametri già definiti l’attore ha un massimo di libertà, se è in grado di saperselo conquistare. Molto spesso non lo vuole, e preferisce il ruolo paterno del regista per farsi inscrivere in armonia con un sistema di segni che non è in grado di gestire. Forse ha anche ragione perché non ha partecipato alla preparazione. Questo è il momento in cui si distinguono gli attori bravi perché un attore bravo trova sempre, anche all'interno di un sistema chiuso, il proprio spazio di libertà. 

Io poi provo 50 - 60  giorni, ma chi prova 30 giorni non può neanche permettersi il lusso di dare spazio agli attori.  Io perdo un sacco di tempo a tavolino, come quasi nessun altro, ormai. Io voglio almeno tentare, anche se poi dicono: “Basta ci annoiamo, a tavolino non si recita. Chi l'ha detto che non si recita a tavolino? Il lavoro immaginario quando si dovrebbe fare, altrimenti? Io voglio avere il tempo di ripercorrere tutto il processo analitico che ho fatto io, in modo che l'attore possieda il testo quanto me. Ed è a questo punto che inizia l'invenzione specifica del testo; a quel punto l’attore  può conquistarsi tutta la libertà che vuole».


Massimo  Castri e il suo teatro: settimana del teatro 30 marzo - 5 aprile 1992, a cura di Isabella Innamorati,  Bulzoni, Roma 1993, p. 151

PROVE DELLA TRILOGIA GOLDONIANA

«Per conoscere e capire il percorso di scrittura di Goldoni, sarebbe stato necessario leggere alcuni testi precedenti alla Trilogia. Leggemmo così insieme I Malcontenti, di cui Castri ci fece notare l'assenza di racconto e la presenza di situazioni grottesche e naturalistiche; seguì La Villeggiatura, dove ci segnalò la presenza di un realismo più duro con comicità e schegge di naturalismo. Durante queste letture Castri ci segnalò come Goldoni lavorasse in maniera sperimentale operando una serie di spostamenti di scrittura. Per saperne di più ci suggerì di leggere alcune pagine importanti da saggi di Franco Fido e di Mario Baratto. [...].  

Come raccontare la noia di questi personaggi in una commedia molto simmetrica che non possiede racconto? E come costruirli?

L'approccio iniziale, che corrispondeva ad un primo livello di lavoro, avvenne attraverso due letture preliminari del testo: con la prima lettura era necessario conoscere l'intreccio, le azioni dei personaggi e le prime informazioni su di essi. Con la seconda si raccoglievano i dati informativi offerti dal testo sul personaggio ricavandone una scheda. Da questa scheda di dati si passava ad un secondo livello di lettura che permetteva di raccontare il testo dal punto di vista del personaggio. Il terzo livello riguardava l'impossessamento soggettivo del personaggio intervenendo con l'immaginazione concreta sulla base dei dati dell'azione fornita dal testo, per poi infine arrivare a una prima forma di "fare" (cioè un quarto livello) col quale si inventava l'azione. Castri ci disse che, comunque, questo tipo di analisi difficilmente poteva essere inquadrata in un sistema di programmazione rigida, andava piuttosto visto in un'ottica di elasticità dentro un continuo percorso di andata e ritorno nel senso che le varie fasi dovevano integrarsi e alimentarsi tra di loro. Ci fu una fase in cui noi attori "raccontammo” il testo e Castri in questa occasione divenne divertito spettatore: si cercò di agire il racconto dalla soggettiva del personaggio con una conseguente affabulazione. Fu una fase divertente che contribuì a creare un clima di conoscenza reciproca, necessario ad un gruppo. Castri ci diceva che solo sapendo cosa si vuole raccontare e solo immaginando qualcosa di concreto si poteva cominciare a recitare. Spesso nella costruzione del personaggio egli ci forniva un immaginario di base che serviva da stimolo e da motore per partire e darci poi modo di svilupparlo e arricchirlo in maniera autonoma. L'obiettivo era arrivare ad una verità nella recitazione attraverso la costruzione interiore e l'uso continuo dell'immaginazione concreta. Queste erano le basi su cui si fondava il lavoro di costruzione del personaggio».

Stefania Felicioli, La ‘Trilogia della villeggiatura’ di Massimo Castri: una testimonianza, in "Studi Goldoniani", n. 3  2014,  pp. 136-137.

Laura Marinoni, Cristina Spina, Stefano Santospago, Massimo Castri durante le prove a tavolino di Orgia AMET

«Tutto questo fare poesia, perché se non c’è poesia la comunicazione non scatta, passa attraverso corpi altrui, passa attraverso il corpo dell’attore, passa attraverso altre teste che sono quelle dei collaboratori del regista, passa attraverso lo scenografo, le luci, le musiche; è un collettivo che lavora…» . 

Massimo Castri, intervento alla tavola rotonda Il teatro di regia alle soglie del terzo millennio, Settimana del teatro, 7-12 maggio 2000, a cura di Paolo Bosisio, Roma, Bulzoni Editore, 2001, p. 269. 

BIBLIOGRAFIA

Massimo Castri, Lo spettacolo del regista. Massimo Castri, in Il teatro italiano oggi. Ideologie teatrali e bisogno di teatro, a cura di Erminia Artese, Roma,  Lerici, 1980, pp. 60-75

Massimo Castri, 1979: Tre registi incontrano Pirandello. Orazio Costa, Mario Missiroli, Massimo Castri, in Ivi, pp. 97-105. 

Claudia Cannella, Lavorare con Ronconi e lavorare con Castri, in “Hystrio”, n. 2, 1994, pp. 20-22.

Biancamaria Ragni, "Elettra" di Euripide per la regia di Massimo Castri: lavoro teatrale e attivazione dell'immaginario dell’attore, in "Biblioteca teatrale", rivista trimestrale di studi e ricerche sullo spettacolo, Roma, Bulzoni, n. 45/46/47 (gennaio-settembre 1998), pp. 83-106. 

Stefania Felicioli, La ‘Trilogia della villeggiatura’ di Massimo Castri: una testimonianza, in "Studi Goldoniani", n. 3,  2014,  pp. 135-142. 

Alla Munchenbach, Tino Schirinzi. Un mestiere costruito sull'acqua. Biografia, interpretazioni e testimonianze, Edita Casa Editrice e Libraria, Taranto, 2017.


Foto copertina: Massimo Castri, 2001 ph_ Marcello Norberth