Fantastica visione

ACTB

1978_1979

FANTASTICA VISIONE SOPRA IL TAGLIO E LA VENDITA DELLA CARNE CON CENNI ALLA QUESTIONE DEGLI ATTORI, DELL’ARTE, DEL TEATRO E DEL MERCATO GENERALE DEGLI OGGETTI NEL DISARMONICO PRESENTE 

di Giuliano Scabia


Regia  Massimo Castri

Scene e costumi Maurizio Balò

Luci Elio Gemmi


Interpreti: Salvatore Landolina (Estraneo), Anita Laurenzi (Madre), Sergio Reggi (Padre), Patrizia Zappa Mulas (Figlia)


Produzione: Centro Teatrale Bresciano in collaborazione con l'Istituto del Dramma Italiano


Debutto: Brescia, Teatro Santa Chiara, 18 gennaio 1979.

Patrizia Zappa Mulas, Salvatore Landolina  ph_ Alabiso ACTB

 DAL PROGRAMMA DI SALA:  CASTRI/SCABIA UN "ASSENSO/DISSENSO"

Patrizia Zappa Mulas ph_ Alabiso ACTB

Sergio Reggi, Patrizia Zappa Mulas, Anita Laurenzi ph_ Alabiso ACTB

«Mi insospettiva la ridondanza dei segni, l'accumulo di teatralità e di superfici colorate, la sovrabbondanza di "maschera" e l'assenza di un "volto". Inoltre permaneva il fastidio di zone opache del testo, l'impressione di una cavità vuota, di uno scarto notevole di densità di scrittura tra le diverse zone del testo (le scene della macelleria rispetto alle scene della famiglia, tra le quali si collocavano come ponte le scene simboliche dei burattini, della Farsa e delle visioni di taglio espressionistico).

Le successive letture mi hanno poi convinto che non di un discorso doppio si trattava ma di un discorso unico e della “mascheratura-travestimento” dello stesso discorso: di un discorso primario, che è quello della famiglia e delle sue triangolazioni interne tra padre, madre e figlio e del suo trasferimento-mascheramento su un altro piano, "sociale" simbolico (l'apologo della macelleria e le scene simboliche). [...]

Mi sembrava insomma che Scabia avesse voluto rimuovere allontanare in profondità il vero nocciolo della scrittura: una dolorante esperienza di morte vissuta attraverso l'affettività e il sesso; che questa fosse la vera esperienza di morte sottesa dalla scrittura, non tanto l'esperienza (ideologica) della morte della società del grande mercato; o almeno che l'esperienza di morte della società ( in quanto vissuto sociale) assumesse rilevanza e risonanza solo in quanto entrava in consonanza e rapporto di conferma con l'esperienza del vissuto privato. Infine, questo mascheramento-difesa, mi sembrava, era proprio ciò che produceva la superficie plurima e colorata del testo, la sovrabbondanza di teatralità di cui ho già parlato. Su queste intuizioni e questi sospetti mi sono mosso: decidendomi per un lavoro di intervento drammaturgico sul testo». 

Massimo Castri, note di regia

Anita Laurenzi, Sergio Reggi, Patrizia Zappa Mulas ph_ Alabiso ACTB

 DALLA RASSEGNA STAMPA  

Odoardo Bertani, Fantastica Visione, Il Dramma, n.4 1979, pp. 8-10

Sergio Reggi, Patrizia Zappa Mulas ph_ Alabiso ACTB

Patrizia Zappa Mulas, Sergio Reggi, Anita Laurenzi ph_ Alabiso ACTB

"Dunque, abbiamo qui una famiglia e una società, fra loro collegate, che si autodistruggono, quella perché "non riesce a sanare o ad assestare in equilibrio dinamico le proprie tensioni interne; questa perché non può arrestare il ciclo paranoide di produzione-consumo". In poche parole, causa la grande epidemia, la penuria di carne, la crisi generale", più volte evocate, si arriverà all'assassinio al cannibalismo all'autofagia. Il tutto in un paese immaginario, ma che si suppone a noi prossimo. Il regista Massimo Castri vede giustamente nel testo di Scabia (scritto o comunque indirizzato nella prospettiva di un teatro vagante che cerca di saldare i modi della cultura Superiore, e perfino accademica, con le forme espressive delle classi subalterne, recuperate in loco) "una pluralità di codici e di linguaggi teatrali": ma preferisce poi concentrare il suo impegno sulla dimensione familiare, applicando a tale nucleo dell'opera i processi di stilizzazione già adottati in sue recenti regie, soprattutto pirandelliane. L'ambiente è quindi fisso: una stanza spoglia, dove si aprono e chiudono porte. Nei costumi (di Maurizio Balò, come la scena) dominano bianco e nero e grigio, cui si aggiungeranno più tardi spruzzi di rosso sangue. Tutto nero barbuto e occhialuto, una via di mezzo tra Freud e Pirandello, è l'investigatore che arriva dall'esterno per indagare sui misteriosi fatti dei quali si hanno frammentarie notizie: gente uccisa, mutilata, mentre si narra di fantasmi omicidi (un po' come gli zombie di rinverdita fama cinematografica). I personaggi si riassumono, due attempati coniugi, o amanti, e una bambina, più oltre trasformata in giovanotto. Su di essi gravano schiaccianti pesi simbolici, convergenti del resto nel concetto, oggi diffuso, della comunità domestica come mostro divoratore: anche, in definitiva, di se stesso. Il clima è quello di un’ allucinazione fredda, calcolata. Non per nulla l'ispettore suggerirà trattarsi di un sogno, ma si domanderà chi sta sognando: e nella trappola onirica sarà preso lui stesso. L'andatura dello spettacolo è lenta, rituale, con accelerazioni parossistiche, da balletto meccanico; le stesse frasi chiave, ossessivamente ripetute, perdono significato, diventano puri fenomeni. Nei momenti più distesi e riflessivi, comunque, il tentativo di parabola sociale storica (che più stava forse a cuore a Scabia) cede il passo alla meditazione esistenziale: tutto questo macello non ha tanto a che fare con le spietate leggi del mercato capitalistico (l'esempio di Brecht, aleggiante sul copione, si è dissolto nell'allestimento) quanto col  "disfarsi del corpo", di cui pur si discorre: la vecchiaia, la caduta dell'eros, la morte". 

Aggeo Savioli, Macellai dal volto familiare, L'Unità, 25 gennaio 1979