Fede, speranza, carità

1998-1999


FEDE, SPERANZA, CARITÀ di Ödön von Horvàth

Traduzione di Umberto Gandini e Emilio Castellani


Regia Massimo Castri 

Scene e costumi Maurizio Balò

Luci Sergio Rossi

Suono Franco Visioli


Interpreti: Stefania Felicioli (Elisabeth), Mauro Malinverno (un poliziotto Alfons Klostermeyer), Flavio Bonacci (il preparatore capo/ l’ispettore capo), Mario Valgoi (il preparatore), Milutin Dapčević (il vicepreparatore, un invalido), Alessandro Baldinotti (il barone col crespo di lutto/terzo poliziotto), Laura Panti (Irene Prantl, la moglie di un operaio), Sonia Barbadoro (la moglie del pretore), Pietro Faiella (lui stesso, il signor pretore/ Joachim, il temerario salvatore), Francesco Bifano (un contabile), Monica Bucciantini (Maria), Thomas Trabacchi (un agente della polizia criminale/secondo poliziotto)


Produzione: Teatro Metastasio Stabile della Toscana

Debutto: Prato, Teatro Fabbricone, 29 gennaio 1999

Intervista a Massimo Castri di Gianfranco Capitta dal Quaderno di sala

Stefania Felicioli, Mauro Valgoi

ph_ AMET

Mi ha sempre affascinato il fatto che questo piccolo autore, venuto dietro e dopo le avanguardie storiche, lavorasse in una maniera che oggi ci appare molto più moderna di Brecht, alla ricerca di un realismo capace di rappresentare l’uomo della società massificata, il piccolo uomo che non ha più consistenza. Quasi sia una risposta al lamento di Luckács (che nei primissimi anni del secolo, da premarxista, lamentava l’impossibilità di scrivere il dramma per l’assenza di eroi), e alla teoria sviluppata poi da Szondi, Horváth invece tenta l’impresa impossibile di far teatro con degli eroi afasici, che non hanno più lingua né parola, e forse neanche più anima. [...]. La sua scrittura non è monotona né monocorde, ma assolutamente sperimentale. Ogni grande realismo è a mio avviso una ricerca sperimentale di possibilità di visione realistica. I suoi testi infatti sono tutti diversi uno dall’altro. Fede, speranza, carità è un punto terminale, più formalizzato di altri, dove la sua penna è più secca, quasi più dolorosa. 

E’ piuttosto simile a un Cechov che abbia perso tutta la poesia e il lirismo di Cechov. Non c’è più quella possibilità, e quindi i vuoti sono davvero vuoti, che rimbombano solo di rumori, di gorgoglii, di brandelli. I suoi personaggi non trovano mai la parola, a differenza di quelli di Cechov, per esprimere la propria sofferenza, non ne hanno il lusso, e tantomeno quello di esprimerla.  E l’autore si attiene, con la capacità del grande naturalista (ma lucido, non alla Zola) al livello del personaggio. [...]

Vent’anni fa mi colpiva maggiormente il dato sociologico e storico del testo; rileggendolo ora mi attira la possibilità di lavorare nella direzione di una grande fedeltà ai personaggi e in parte anche alla didascalia, ma con relativa infedeltà per quanto riguarda il contesto visivo e immaginario. Ho sempre più avvertito in questi giorni di lavoro, una specie di fiaba nera e naive, quasi metropolitana. C’è la città dentro, la durezza e la tristezza della città.

Stefania Felicioli, Sonia Barbadoro, Lura Panti, Mauro Valgoi

ph_ AMET

Leggendo il testo c’è un’idea di movimento in questo vuoto, perché si attraversano i luoghi come si attraversano le parole, o una via crucis, o un itinerario… Sono delle tappe, delle stazioni, senza però il patetismo della via crucis. Non c’è la madonna che piange… Non sa nemmeno che cosa vuol dire piangere, probabilmente. Elisabeth è un esempio incredibile di vitalità animale, finché muore perché non ha più niente da mangiare. Non ha mai un momento di autocommiserazione. E’ un personaggio combattente che non ha le armi. Forse ha il problema di essere un po’ più umana degli altri.

[...] Ero tentato di proporre al testo un immaginario più forte, meno contingente, che è l’immaginario della città. Il confronto di questa piccola, ‘stupidina’ eroina che si confronta con la città. 

Come nelle fiabe…[...] come Pollicino.  Pollicino e il bosco. 

Alla fine più che una definizione iconica di questi luoghi archetipici del racconto popolare o del cinema nero, e della narrativa popolare, è nata dentro il Fabbricone l’immagine di una città: un occhio che sta tra quello del bambino, quello di Sironi e in parte quello della Nuova Oggettività. Una città che è minacciosa ma non tanto, perché ha le dimensioni di un giocattolo. Più piccola del Fabbricone ma molto più grande del corpo umano.

Stefania Felicioli,

AMET

Elisabeth e Ersilia

... curiosamente Fede, speranza, carità, fornì uno strame a Vestire gli ignudi, perché il personaggio femminile di quello influenzò la lettura della protagonista di questo. Elisabeth e Ersilia Drei sono due personaggi completamente diversi, ma sono entrambi due piccole eroine.

Ruggero Dondi, Salvatore Landolina, Annamaria Lisi, Aldo Engheben, Ermes 

ph_StudioA2 ACTB

Alessandro Baldinotti, Stefania Felicioli, Milutin Dapčević, Ronni Bernardi, Thomas Trabacchi

AMET

Studio per la scenografia, bozzetti di Maurizio Balò

Dalla rassegna stampa

Mauro Malinverno

AMET

Massimo Castri teneva nel cassetto questo dramma fin dagli inizi della sua carriera. Ne ha fatto un'opera molto bella, sottolineando mediante uno studiato rallentamento l’inesorabilità del testo, il suo doppio fondo minaccioso. All'indicazione ingenua dell'autore di suonare in sottofondo la Marcia funebre di Chopin egli contravviene, giustamente, inserendo un malinconico jazz dal greve ritmo giambico, cui si sovrappongono i finti Jazz europei degli anni ‘30, la Marcia di Radetzky e spezzoni con la voce di Hitler - senza riproporre, per fortuna, il solito birignao weimariano con lampioni, giarrettiere e sigarette pendule. La suggestiva scenografia di Maurizio Ballò tende, anzi, a colmare lo iato tra il mondo descritto e la memoria storica (e iconica) dello spettatore attingendo all'arte tedesca, ma anche italiana (De Pisis) tutto un mondo di edifici popolari mal rifiniti, pomposi portali, palazzoni in stile Piacentini, ciminiere di fabbriche, cui si aggiungono - come un sovrappiù di memoria - gli ingrandimenti dei modellini-giocattolo in legno di un furgone e di una carrozzina, che diventano un vero furgone e una vera carrozzina. "

Luca Doninelli, Quando la morte diventa dono, “Avvenire”, 6 febbraio 1999 

"At the Fabbricone Theatre in Prato (run by Prato Metastasio’s Theatre), director Massimo Castri used the entire width and almost the complete length of the venue for the five-act play’s set, comprised of 13 wheel-mounted elements, including three huge buildings, a gateway with two adjacent walls, benches, and a truck.. This rather astonishing size meant slashing audience capacity from 450 to 100. 

Castri’s radical approach to this production - how many directors have the gall to tear out nearly ¾ of the seats? - encouraged lighting designer Sergio Rossi to try different things in his own work"

Mike Clark, Acting on Faith in “Entertainment Design”, febbraio 2000, pp. 7-8

Nell'articolo le specifiche tecniche relative alle luci di Sergio Rossi e all'impianto sonoro di Franco Visioli e Andrea Taglia.

Foto di copertina: Stefania Felicioli, Laura Panti, Sonia Barbadoro ph_ AMET